“La poesia delle forme”, Joan Miró alla Villa Reale di Monza (sino al 5 maggio)

Nessuno mai immaginerebbe che Joan Miró i Ferrà fosse stato costretto a fare il contabile. Un dato quasi incredibile se pensiamo all’immane fantasia compositiva e coloristica del pittore catalano, che agli inizi della sua attività creativa, smessi i registri e la burocrazia aritmetica, fu influenzato dagli Impressionisti, da Cézanne e van Gogh, dai fauves, dai dadaisti e dai cubisti. La pittura più che fantasiosa e pur di estremo rigore intellettuale, fra simboli e richiami archetipici, coi colori affioranti dall’inconscio o forme di universi da esplorare, l’ha infine definito come uno degli artisti-chiave del Novecento, con una cifra stilistica originalissima, sostanzialmente inimitabile.

Uomo di vastissima cultura e relazioni, Miró non smette mai di sorprendere, come nella mostra allestita alla Villa Reale di Monza – location peraltro stupenda – La poesia delle forme, visitabile sino al 5 maggio.

Pitture, incisioni, illustrazioni, nulla manca, e in maniera dettagliata viene indagato il mondo delle molteplici relazioni e interessi coltivati dal geniale barcellonese con ascendenze materne maiorchine, che a Parigi completò la propria formazione, conoscendo i maestri del Surrealismo e autori quali Ernest Hemingway, Ezra Pound, Henry Miller, Jacques Prévert, André Breton, Paul Éluard, Louis Aragon. Immaginazione a profusione e, ossimoro solo apparente, figure schematiche in libertà. Sperimentatore indefesso, non vi fu campo in cui, oltre all’onnipresente pittura, non s’azzardò a cimentarsi, compresi disegno e illustrazione, incisione, collage, scultura, ceramica, arazzo. Surrealista sui generis, i suoi segni escono dal profondo per risedimentarvisi innescando inusitati e fecondi link.

Una lunghissima carriera, la sua, come la vita. Joan si spense a novant’anni, nel 1983 a Maiorca dove si era stabilito, fra l’azzurro del cielo e quello del Mediterraneo in tutte le loro gradazioni, sfumature e suggestioni. Onirico e irrazionale mescolati all’osservazione del reale, ricreato, quest’ultimo, da una sorta di lanterna magica. Un altro occhio, invisibile e tuttavia non meno presente.

L’esposizione monzese, curata da Lola Durán Úcar si configura come un intelligente percorso nell’evoluzione artistica di Miró, mostrandone non solo gli sviluppi, ma anche la versatilità (innumerevoli i materiali usati – pure papiro e carta di giornale – e le tecniche) e il poliedrico ingegno.

Bisogna dipingere camminando sulla terra, affinché la sua forza entri dai piedi, diceva il pur aereo Joan. E ancora… è come il velluto la luce della luna piena, quando vola nel cielo arancione sopra le montagne di Genova, con una stellina vicino. Sono soltanto cinque o dieci minuti, ma è come il velluto, come la sera. Poi se ne va. Non stupisce dunque che Miró potesse anche lavorare, con immenso lirismo di macchie e linee, intorno ai versi del Cantico: “Le parole di San Francesco d’Assisi sono tradotte da Joan Miró in immagini piene di astri, creature, onde, prati, il mare… espresse con un minimo gesto per arrivare al massimo della purezza.”

Collaborazioni infinite coltivò Miró, con editori e poeti in imprese artistiche scintillanti, in una perfetta commistione/compenetrazione di generi (vedi la meravigliosa reciprocità con Rafael Alberti: Maravillas con variaciones acrósticas en el jardin de Miró, in mostra). Magnifica la serie di incisioni Les pénalités de l’enfer ou les Nouvelles Hébrides concepite per illustrare una delle opere poetiche di Robert Desnos (morto nel 1944 nel Ghetto di Theresienstadt): Come tutti i surrealisti, Desnos era ossessionato dal linguaggio come materiale visivo e fonetico che poteva essere utilizzato in totale libertà. Considerava la poesia un atto d’amore dove il poeta si abbandonava con anima e corpo, come una specie di abbraccio. Miró la pensava allo stesso modo: Ciò che conta è mettere a nudo la nostra anima. La pittura o la poesia si fanno come si fa l’amore; uno scambio di sangue, un abbraccio totale, senza alcuna cautela, senza alcuna protezione.”

Questa collaborazione fu postuma, in quanto avvenne, su sollecitazione della vedova, dopo la morte del poeta a Theresienstadt. Les pénalités de l’enfer ou les Nouvelles Hébrides era una raccolta inedita. Un risvolto oltremodo toccante.

E che cosa diceva ancora Miró riguardo al suo processo creativo? … nasce sempre da uno stato di allucinazione, provocato da uno shock, oggettivo o soggettivo, e del quale sono completamente irresponsabile. Riguardo il mio mezzo espressivo cerco di raggiungere il massimo di chiarezza, potenza e aggressività plastica, ovvero provocare prima una sensazione fisica per arrivare successivamente all’anima. Tutto vero, ma, al tempo stesso, l’elaborazione formale è sapientissima. E sapeva perdersi nella immane forza della Natura… “Poteva passare ore esaminando le pietre e i ciottoli che catturavano la sua attenzione, toccando l’erba o la sabbia della spiaggia, osservando gli uccelli mangiare e i pesci nuotare, cercando gli insetti… Trovava la pace contemplando i campi e osservando il lavoro dei contadini, incantato da quello che la natura gli dava.”

Un gigante dalle gentili potenti cromie e dai plurimi significati, ivi incluso il meraviglioso incognito, cui Monza ha reso omaggio con una mostra di straordinaria forza evocativa.

Alberto Figliolia

Joan Mirò-La poesia delle forme. Belvedere, Villa Reale di Monza. Fino al 5 maggio 2024.

Orari: da mercoledì a venerdì, 10-16; sabato, domenica e festivi, 10,30-18,30 (la biglietteria chiude un’ora prima). 25 aprile e 1 maggio, 10,30-18,30.

Info: sito Internet https://miromonza.com/, e-mail mostramiromonza@gmail.com.

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