Back to Momix-Teatro Lirico Giorgio Gaber

Raccontare uno spettacolo dei Momix è quanto di più semplice possa esservi, tanta è la struggente bellezza che ci scava dentro nel momento degli innumerevoli quadri della ‘performance’, coinvolgendo la sfera sensoriale e quella emotiva in una commistione/immersione senza pari né limiti. Semplice e anche difficile poiché non vi sono aggettivi bastevoli per narrare quell’insieme perfetto di danze, musiche, scenografie, coreografie, movimenti, sogni, proiezioni della fantasia, suggestioni disparate.

I Momix, di nuovo nel Bel Paese,si presentano al Teatro Lirico Gaber di Milano fino al 26 maggio con Back to Momix… “uno spettacolo nato dal desiderio di tornare a calcare le scene dopo anni difficili che hanno allontanato la compagnia dal suo pubblico, con il desiderio di leggerezza e spensieratezza, peculiarità della compagnia, e uno sguardo sempre teso al futuro: da qui il gioco di parole del titolo che richiama un classico della cinematografia anni ’80.”

Sono circa 90′ (escluso l’intervallo di 20′) che volano in preda allo stupore, con l’illusione che si fa materia e viceversa, in un gioco di corpi e di possibilità infinite, fra luci che vibrano, paesaggi alieni, fantasmagorie ecologiche, respiro cosmico, atmosfere oniriche, tableaux vivants, danze serpentine, specchi che raddoppiano le percezioni, veli e voli, evoluzioni, figurazioni di meravigliose e stravaganti creature, stranimali, tele astratte, fiori che esplodono al cielo, ironia lieve, impensabili plasticità, rare e prodigiose contaminazioni e, come detto, bellezza coniugata con un’ineguagliabile invincibile armonia.

“Momix, che di anni ormai ne ha 43, non sembra accorgersene ed affronta le sfide della gravità, le acrobazie dei suoi incredibili ballerini e il trasformismo dei suoi personaggi che evocano sensazioni e colori sempre nuovi con gli occhi di un bambino un po’ cresciuto, Moses Pendleton, carismatico direttore artistico e creatore di innumerevoli spettacoli di successo.”

Vengono riproposti estratti dei grandi classici, sedimentati nell’immaginario collettivo in una storia mai scontata e sempre oltremodo originale: MomixClassics, Passion, Baseball, Opus Cactus, SunFlower Moon, Bothanica, Alchemy. Un autentico profondissimo incanto. Uno splendore creativo che colma gli animi sovente travagliati dalla frenesia della contemporaneità. Il dinamismo dei Momix è altamente meditativo!

I ballerini-illusionisti diretti dal geniale Moses Pendleton posseggono la “capacità di evocare un mondo di immagini surreali facendo interagire corpi umani, costumi, attrezzi, giochi di luce.”

Ricordiamo che la compagnia ha ricavato il proprio nome da un assolo ideato da Moses, che allora faceva parte dei Pilobolus Dance Theatre, in occasione dei Giochi Olimpici 1980 disputati negli States, in quel di Lake Placid. Per quanto nel dipanarsi del tempo si siano avvicendati vari elementi nel gruppo, a seconda dei casi ampliandone o diminuendone le dimensioni, il messaggio originale e l’impegno – possiamo chiamarlo per traslato ‘genius loci’? –  sono rimasti i medesimi. Per il nostro godimento, per il nostro piacere intellettivo ed emozionale.

Si rischiano gli effetti della Sindrome di Stendhal con i Momix. Invero, come detto, è ‘solo’ gioia, prezioso arricchimento culturale e sentimentale. Bellezza e armonia.

“Che dire? Serata mirabile! Che modi per descrivere, sentire? la parola a un regista milanese dopo lo spettacolo Penetranti! Come lame di luce nel buio esistenziale. Sogni che vorrebbero tramutarsi in realtà, ma che ineluttabilmente ritornano nella loro essenziale identità, cioè sogni a occhi aperti. Eyes Wide Shut della danza, dell’armonia. Onde di luci e colori che attraversano l’anima. Sobbalzi di cuore per capire meglio il loro messaggio d’amore, sì… amore nel loro modo singolare di comunicare. Perché alla fine comunicare è amare. Il buio assoluto è a entropia zero = Assenza totale di comunicazione. Esci a fine spettacolo e oltre alla gioia immensa di avere ricevuto un’ondata di energia benefica rimane l’angoscia, il nodo alla gola stendhaliano della consapevolezza di esserti allontanato da tanta bellezza senza sapere quando riviverla. Ma sai di essere più ricco…”

Alberto Figliolia

Back to Momix. Fino al 26 maggio. Teatro Lirico Giorgio Gaber, via Larga 14, Milano.

Info: tel. 020064081 (tasto 2 per Teatro Lirico); SMS o WA 3453677167; e-mail info@teatroliricogiorgiogaber.it; e-mail biglietteria boxoffice@teatroliricogiorgiogaber.it; sito Internet teatroliricogiorgiogaber.it.

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“Il Gino e la Gilda”-Teatro Gerolamo, sabato 18 maggio

Andare al Teatro Gerolamo e assistere a uno spettacolo che vi si tiene equivale a compiere qualcosa che le leggi della fisica non potrebbero consentire: un viaggio nel tempo.

A buon diritto definito una Scala in miniatura il Gerolamo è un gioiello architettonico che regala nella sua intima preziosità suggestioni senza pari. Data di nascita 1868 – dotato in origine di due ordini di palchi, un loggione e una platea per una capienza globale di 600 posti – quindi oltre un secolo e mezzo di vita, un tempo colmo di spettacoli, avvenimenti, traversie e gioie, vicissitudini, riprese, abbandoni e rinascite.

Nella sala di piazza Beccaria, costruita, a quanto pare, anche con i materiali di scarto e recupero della Galleria Vittorio Emanuele – con un esito scintillante, a ben vedere – si sono avvicendate compagnie e artisti di prestigio: dal marionettista Giuseppe Fiando agli interpreti della commedia dialettale milanese e agli stessi membri della Scapigliatura, movimento letterario di estrema novità. Il Gerolamo sarebbe poi divenuto la casa della celeberrima compagnia marionettistica Carlo Colla & Figli. Fino al 1957, anno della prima chiusura, dato il degrado materiale incombente. Ma già l’anno dopo il Gerolamo, grazie anche alla indefessa opera di Paolo Grassi, riapre con uno spettacolo dell’immenso Eduardo De Filippo. Ecco una successione di chi, fra gli altri, vi si è esibito: Franca Valeri, Lilla Brignone, Tino Buazzelli, Jean-Louis Barrault, Paolo Poli, Milly, Enzo Jannacci, Dario Fo con l’inseparabile Franca Rame, Ornella Vanoni, Domenico Modugno, Maurizio Micheli e Rosalina Neri (sotto la direzione dell’indimenticabile Umberto Simonetta, drammaturgo, paroliere, scrittore di gran rango). Nel 1983 cade la seconda chiusura, ma il 2017 è l’anno della riapertura definitiva. Citiamo: “… il teatro viene recuperato e messo a disposizione della città di Milano per iniziativa privata della Società Sanitaria Ceschina, proprietaria da circa un secolo dello stabile che ospita il Gerolamo. La Società ha provveduto ai lavori di restauro, proseguiti per sei anni e improntati all’idea di conservare e consolidare quanto era possibile recuperare della struttura originaria e del suo splendore. Il Gerolamo oggi conta 209 posti complessivi e numerosi nuovi spazi: una sala caffetteria, uno spazio per conferenze, mostre e proiezioni al piano terra, una piccola sala con un pianoforte e biblioteca.”

E il cartellone in questo luogo di cultura è tornato a essere ricco, vario e prestigioso, oltremodo stimolante: teatro (dialettale, comico e tanto altro, vedi, per esempio, il drammaticissimo spettacolo L’avversario tratto da un’opera di Emmanuel Carrère), concerti, recital, marionette, persino un circo di stampo ottocentesco, cabaret, giornate-tributo, danza.

Sabato 18 maggio (ore 20) sarà la volta de Il Gino e la Gilda, una “travagliata storia d’amore” proposta sotto forma di “teatro canzone liberamente ispirato al racconto introduttivo de La Gilda del Mac Mahon” di quel genio che fu Giovanni Testori. Nel corpo della rappresentazione aleggeranno i brani – L’Armando, El portava i scarp de tennis, Veronica, M’hann ciamà et alia – di un altro grande milanese, il medico-cantautore Enzo Jannacci, per l’esecuzione del gruppo Emilio e gli Ambrogio. Si tratta di… “Una storia di emarginazione e povertà ambientata a Milano: la Gilda, sinuosa e provocante, si innamora di un balordo, il Gino, piccolo criminale il quale, provenendo da una vita fatta di piccoli espedienti e losche attività, grazie alla relazione con questa affascinante e conturbante donna inizia a condurre una vita brillante e piena di agi. Ma la natura del Gino è balorda, così finisce in carcere, dove viene mantenuto dalla Gilda che non esita a vendere il corpo per il suo uomo. Una volta uscito di prigione il Gino ripudia la Gilda e, anziché mostrarsi grato, chiude la relazione e decide di rifarsi una vita voltando le spalle all’unica persona che aveva saputo veramente amarlo. Ma la Gilda è più forte degli insulti e delle offese che la vita le rivolge; le strade dei due singolari amanti si separano sino al tragico epilogo: quando la polizia, dopo aver trovato la Gilda morta in un parco frequentato da prostitute e dai loro clienti, convoca il Gino per il riconoscimento della salma.”

Una trama esistenziale straziante, struggente, di sacrificio, “sensi di colpa, squallore e solitudine”, un profluvio di S a definire la curva e sibilante linea dei giorni, fra occasioni perdute e, nonostante tutto, il profumo di rosa di un amore puro, potente.

Nel cast: Emilio e gli Ambrogio, con la voce narrante e cantante di Emilio Sanvittore, la chitarra di Marco Cazzaniga, Alessio Pamovio al pianoforte, Nicola Caldirola al basso e Davide Spada alla batteria. Regia a cura di Emilio Sanvittore e del poliedrico e sempre sorprendente Bruno Graceffa, un nome storico che fa piacere rivedere all’opera in un allestimento tanto importante.

Durata dello spettacolo: 80 minuti senza intervallo. Da vedere senza indugio alcuno.

Segnaliamo altresì nel prosieguo della stagione: domenica 19 maggio (ore 16), Carlo Porta e la Ninetta del Verzee-Versione integrale originale, Canzoni, parole e poesia; giovedì 23 maggio (ore 20), Donna non rieducabile-Un viaggio negli occhi di Anna Politkovskaja; sabato 25 maggio (ore 20), Un posto al Soul; domenica 26 maggio (ore 16), Stravaganti universi. Brevi racconti di Fredric Brown. Divertimento, satira sociale, impegno civile, musica, fantascienza… Non manca alcunché!

Per info e prenotazioni: uffici, tel. 0236590120 (lun-ven 10-18); biglietteria, tel. 0245388221 (sab 16,30-20,30/dom 12,30-16,30). La biglietteria è aperta nei giorni di spettacolo a partire da tre ore prima dell’inizio della replica in programma (feriali 16,30-20,30/dom 12,30-16,30). Sito Internet: http://www.teatrogerolamo.it.

Alberto Figliolia

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Brassaï. L’occhio di Parigi-Palazzo Reale di Milano

Io non invento niente, immagino tutto. Cerco solo di rappresentare la realtà, dal momento che nulla è più surreale!

Tutto può essere banale, tutto può essere meraviglioso! Che cos’è il banale se non il meraviglioso impoverito dall’abitudine?

Gyula Halász nasce nel 1899 a Brașov (in ungherese Brassó) in Transilvania. La vocazione francese della famiglia di origine era tuttavia tanto forte (il padre era un docente di letteratura francese) che già a 4 anni il piccolo Gyula aveva soggiornato in rue Morgue, nella Ville Lumière. Gyula Halász, alias Pierre Brassaï, uno dei più grandi fotografi del XX secolo nonché poliedrico e versatile talento artistico.

Nel 1918 troviamo il giovane Gyula-Pierre a Budapest a studiare disegno all’Accademia di Belle Arti e del 1920 è il trasferimento a Berlino dove conosce e frequenta non pochi intellettuali e artisti, fra i quali tali Kandinsky e Kokoschka. Infine nel 1924 è di nuovo nella sua città d’elezione, Parigi, delle cui luci e ombre, nebbie e chiaroscuri, esseri della più varia risma e atmosfere psicologiche, della cui essenza diverrà magnifico cantore: poeta e dipintore con l’obiettivo della propria macchina fotografica. Sarà amico di Prévert e di Picasso di cui dal 1943 al 1946 fotograferà le sculture nell’atelier di rue des Grands-Augustins (Sai cosa disse Picasso quando vide i miei disegni nel 1939? “Brassaï, tu sei un disegnatore nato. Perché non continui? Hai a disposizione una miniera d’oro e perdi tempo a sfruttare una miniera di sale.”).

Creerà anche scenografie teatrali a partire dai suoi scatti. Lavorerà per Harper’s Bazaar viaggiando in Italia, Spagna, Marocco, Grecia, Turchia. Ma Parigi sarà la sua inimitabile eterna musa…

A  Brassaï è dedicata una bellissima mostra, visitabile sino al 2 giugno, nel Palazzo Reale di Milano. Una esposizione dall’intelligentissimo allestimento e percorso che consente di sviscerare i molteplici esiti e suggestioni dell’arte fotografica (e non solo) del ragazzo di  Brassó dalla vocazione parigina e cosmopolita. Come detto, immagini di Parigi per eccellenza, dai piu vari ambienti al demi-monde e alle strade, dai primi piani, che sono ritratti dell’anima, ai gruppi e ai locali con la loro incredibile fauna umana. Non solo tuttavia, poiché, come detto, la curiosità di PB era onnivora. Vi sono, per esempio, anche immagini di graffiti… Il muro ha sempre sercitato su di me una sorta di fascino. Ho spesso preferito quest’altra ‘natura’, artificiale e urbana, intrisa di umanità, infinitamente ricca di suggestioni e il linguaggio effimero che misteriosamente vi prende forma.  Brassaï fotografava quelle che riteneva vere e proprie “opere d’arte parietali”, ricomponendole quindi in specifiche categorie.

Realismo e istanze oniriche potevano convivere nella sua interpretazione, come nelle sperimentazioni delle Transmutations, in cui… “Brassaï afferma di aver voluto rivelare la figura nascosta che avvertiva in alcune delle sue fotografie. […] lavorava direttamente con un pennino su alcuni dei suoi negativi. In una successione di fasi arrivava a produrre fino a otto stati per ogni immagine, ogni trasmutazione subiva dunque un’evoluzione nel tempo. Attraverso la sua ramificazione polisemica l’immagine iniziale così sezionata trasmutava, acquisendo una nuova esistenza.”

Dalle immagini perse nella memoria al saccheggiare la bellezza in tutte le sue forme l’avventura intellettuale di PB è stata estremamente avvincente e oltremodo affascinante – Il surrealismo delle mie immagini non è altro che il reale reso fantastico dallo sguardo! – dalla vita quotidiana a quella più segreta e recondita, compresa l’umanità “declassata” trovando, questa, con lui una linfa vitalissima e in lui uno sguardo non moralistico o rinvenendo l’innocenza primigenia nei bambini catturati mai in posa, bensì nella loro spontaneità emotiva. E le situazioni paradossali, inconsuete od originali, con gli emarginati e i reietti della società, prostitute (le “case delle illusioni”…) e malviventi (questi ultimi, sì, messi sovente in posa).

Ero alla ricerca della poesia della nebbia, che trasforma le cose, della poesia della notte, che trasforma la città, della poesia del tempo, che trasforma le persone.

Bello perdersi in questo viaggio parigino e nell’anima – 200 le stampe d’epoca oltre a sculture e documenti vari – dalla luce immaginifica dei lampioni, piccoli diffusi soli notturni, agli effetti quasi illusionistici della nebbia, lungo marciapiedi e strade lastricate in attesa di figure e storie, nei volti scolpiti dalla durezza dell’esistenza o beffardi o sornioni o in preda a uno stranito stupore o d’invisibile tenerezza… “clochard, artisti, girovaghi solitari. Nelle sue passeggiate, il fotografo non si limitava alla rappresentazione del paesaggio o alle vedute architettoniche, ma si avventurava anche in spazi interni più intimi e confinati.”

“Esporre oggi Brassaï significa – afferma Philippe Ribeyrolles, curatore della mostra – rivisitare quest’opera meravigliosa in ogni senso, fare il punto sulla diversità dei soggetti affrontati, mescolando approcci artistici e documentaristici; significa immergersi nell’atmosfera di Montparnasse, dove tra le due guerre si incontravano numerosi artisti e scrittori, molti dei quali provenienti dall’Europa dell’Est, come il suo connazionale André Kertész. Quest’ultimo esercitò una notevole influenza sui fotografi che lo circondavano, tra cui lo stesso Brassaï e Robert Doisneau.”

E ancora… “Brassaï appartiene a quella “scuola” francese di fotografia definita umanista per la presenza essenziale di donne, uomini e bambini all’interno dei suoi scatti sebbene riassumere il suo lavoro solo sotto questo aspetto sarebbe riduttivo. Oltre alla fotografia di soggetto la sua esplorazione dei muri di Parigi e dei loro innumerevoli graffiti testimonia il legame di Brassaï con le arti marginali e l’art brut di Jean Dubuffet.”

Brassaï muore nel 1984, due anni dopo la pubblicazione de Les artistes de ma vie e poco prima di avere concluso la redazione di un volume su Proust a cui aveva dedicato non scarso tempo. Quanto dimostra il suo amplissimo spettro intellettuale.

La sua tomba è a Montaparnasse, dentro la città da lui tanto amata, specchio del mondo con la sua vivezza e le innumerevoli possibilità da essa offerte e vicissitudini o vicende appassionanti da conoscere e con cui intrecciarsi. Amabilmente e con un occhio speciale, caleidoscopio di nostalgia e di futuri.

Alberto Figliolia

Brassaï. L’occhio di Parigi, mostra promossa da Comune di Milano – Cultura e prodotta da Palazzo Reale e Silvana Editoriale, realizzata in collaborazione con l’Estate Brassaï Succession. Retrospettiva curata da Philippe Ribeyrolles. Fino al 2 giugno. Palazzo Reale, Piazza Duomo 12, Milano.

Catalogo di Silvana Editoriale curato da Philippe Ribeyrolles, con un testo critico di Silvia Paoli.

Info: siti Internet palazzorealemilano.it, mostrabrassaimilano.it.

Orari: da martedì a domenica 10-19,30; giovedì chiusura alle 22,30; lunedì chiuso.

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Nell’orbita vuota

Nell’orbita vuota

di un teschio

entrano

milioni di figure

di soldati:

sciami di armati

bardati

in grigio-verde,

kaki

od ogni altro colore

di un arcobaleno smorto;

dall’altra orbita

escono

mosche d’oro,

baluginanti,

sazie.

Alberto Figliolia

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In memoria di Ada

In memoria di Ada

Il cielo era di cenere quel giorno

e la pioggia girava con il vento,

l’orizzonte nulla più che un segmento,

l’essere un cuore solo e disadorno.//

Era il tuo funerale, Ada, madrina.

Scherzavano i ricordi con la mente:

il tuo sorriso morbido, accogliente;

l’odore di melanzane in cucina;//

il sette e mezzo nel caldo Natale;

Sanremo, la Cinquetti e Celentano,

“Non ho l’età…”, e Milano capitale//

fra rotaie, gasometri, meccano,

il Carosello e i Baci Perugina.

Che nostalgia di te, Ada, madrina.

Alberto Figliolia

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Un merlo canta

Un merlo canta

su un’antenna,

ho la barba lunga,

su un balcone diroccato

aspetto

il tramonto;

nel mentre m’invadon

ricordi.

Alberto Figliolia

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A Hendrik Johannes “Johan” Cruyff (o Cruijff)

A Hendrik Johannes “Johan” Cruyff (o Cruijff)

Come le praterie in un’estate indiana…

selvaggia folata e soave brezza

la tua corsa, Johan, una danza

il tuo dribbling fra terzini marcatori

della stessa sostanza della pietra

e stopper dalla facies feroce,

ma tu andavi oltre i bastioni

con levità non scevra di forza,

ispirando l’assalto, scoccando

dardi d’apollinea bellezza,

agendo nel centro delle idee,

creando luce come Vermeer

(tu dolce folgore sull’erba,

lui in un interno senza tempo),

paesaggio bruegeliano,

perfetto come un Rembrandt

nelle pieghe del buio.

E gol come spirali celesti di van Gogh

nascevano dai tuoi piedi

piatti e saggi come quelli antichi

di un profeta in marcia

nei deserti del mondo.

Il bianco e rosso dell’Ajax,

il blaugrana del Barça,

l’orange dell’Olanda…

tutte maglie tatuate

nel cuore per sempre…

un calcio a una pietra lungo i canali,

invenzioni e ricami vetrosi alla Gaudí

e meccanismi così perfetti

da sgominare gli avversari,

da sgomentare il pensiero.

Con Rep, Keizer, Hulshoff, van Hanegem,

Rijsbergen, Haan, Suurbier, Neeskens, Jongbloed…

come un Cavaliere dell’Ideale,

pietra angolare della fantasia,

libero amore e sogno e anarchia

(ah l’ordine senza potere!),

rivoluzione armoniosa e fiorita,

di lunghi capelli e basette gentili,

arte applicata e nuvole in fuga

verso gli orizzonti dell’altrove.

O Johan, come una canzone dei Beatles…

Lucy in the Sky with Diamonds,

A Day in the Life, Let It Be

ora corri come il vento

nelle praterie di un’estate indiana.

Alberto Figliolia (da Cieli di gloria-Poesie sportive, Edizioni Il Foglio)

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3,50 x 1,70

3,50 x 1,70.

Questo è il mio paradiso:

3,50 × 1,70. Metri.

Bianco e rosso mattone.

Due pareti rugose,

una porta-finestra

e una vista verso il mondo restante.

Ai ganci sui muri:

una targa commemorativa del Centennial

del Wyoming (1890-1990),

numero AD 1266,

con un cavaliere che sta domando

un mustang sotto un cielo

azzurro pastello;

due cuori di Bratislava

di cartone

che si stanno frantumando

al sole e all’aria;

un capodoglio-fermalibri

di alluminio grigio.

Sul pavimento:

due ficus: uno nato

da un rametto a suo tempo

immerso in una bottiglia

di plastica; una rigogliosa salvia;

un pomodoro sopravvissuto

all’inverno (e già due frutti

acerbi e fiori gialli);

una bougainvillea, che pareva morta

ed è rinata, foglie

orgogliose contro ogni apparenza;

un geranio pallido,

ma risorto dal nulla nebbioso,

e un altro che stenta,

ma si farà;

e piantine di lenticchie

e fagioli e altro non riconoscibile

sparso dai semi

della disperazione e della volontà;

e bambù e tuberi morti

e cactus e una dracaena.//

3,50 x 1,70. Metri.

Questo è il mio paradiso,

la mia fuga dal recinto

della prigionia mentale,

dall’inganno, dalle bugie,

dalla paura dell’invisibile.

E mi affaccio su strisce

di nuvole, come quelle che videro

Goethe, Gauguin e Kobayashi Issa,

su tramonti porpora,

su piccole margherite,

su alberi che, nonostante noi,

si rivestono di un abito verde,

sulla corona eterna delle Alpi

e la maestà del loro silenzio

a generare speranza.//

3,50 x 1,70. Metri.

Il mio balcone, un paradiso.

Cesano Boscone, domenica 26 aprile 2020

Alberto Figliolia

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Senza memoria anche i banchi di scuola-Chernobyl, 26 aprile 1986

Senza memoria anche i banchi di scuola-Chernobyl, 26 aprile 1986

“Senza memoria anche i banchi di scuola-Chernobyl, 26 aprile 1986”

Senza memoria anche i banchi di scuola.

Nelle lande dell’invisibile morte

solo lupi dal muso deforme

e il vento è un verso

che morde l’anima.//

Bambole abbandonate nelle stanze

delle bambine in fuga

verso salmastre salvezze;

un pallone da calcio, che fu sogno,

per il futuro dirottato di un bambino.//

Sui tetti, lontano, cade la pioggia

e il terrore è una spada

che fruga lenta, implacabile,

nei meandri della mente.//

Emaciate figure dietro i vetri,

fantasmi di pallido piombo,

parole disperse nell’eco del silenzio,

evanescenze di crepuscolo…//

Perché della Terra far ventre d’orrore?

Scivolava il cuore nelle viscere più nere

mentre l’aria girava a vuoto

e uomini in tute di plastica salivano

il calvario dell’oblio.//

Senza memoria anche i banchi di scuola.

Nelle lande dell’invisibile morte

solo lupi dal muso deforme

e il vento è un verso

che morde l’anima.

Alberto Figliolia

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“La poesia delle forme”, Joan Miró alla Villa Reale di Monza (sino al 5 maggio)

Nessuno mai immaginerebbe che Joan Miró i Ferrà fosse stato costretto a fare il contabile. Un dato quasi incredibile se pensiamo all’immane fantasia compositiva e coloristica del pittore catalano, che agli inizi della sua attività creativa, smessi i registri e la burocrazia aritmetica, fu influenzato dagli Impressionisti, da Cézanne e van Gogh, dai fauves, dai dadaisti e dai cubisti. La pittura più che fantasiosa e pur di estremo rigore intellettuale, fra simboli e richiami archetipici, coi colori affioranti dall’inconscio o forme di universi da esplorare, l’ha infine definito come uno degli artisti-chiave del Novecento, con una cifra stilistica originalissima, sostanzialmente inimitabile.

Uomo di vastissima cultura e relazioni, Miró non smette mai di sorprendere, come nella mostra allestita alla Villa Reale di Monza – location peraltro stupenda – La poesia delle forme, visitabile sino al 5 maggio.

Pitture, incisioni, illustrazioni, nulla manca, e in maniera dettagliata viene indagato il mondo delle molteplici relazioni e interessi coltivati dal geniale barcellonese con ascendenze materne maiorchine, che a Parigi completò la propria formazione, conoscendo i maestri del Surrealismo e autori quali Ernest Hemingway, Ezra Pound, Henry Miller, Jacques Prévert, André Breton, Paul Éluard, Louis Aragon. Immaginazione a profusione e, ossimoro solo apparente, figure schematiche in libertà. Sperimentatore indefesso, non vi fu campo in cui, oltre all’onnipresente pittura, non s’azzardò a cimentarsi, compresi disegno e illustrazione, incisione, collage, scultura, ceramica, arazzo. Surrealista sui generis, i suoi segni escono dal profondo per risedimentarvisi innescando inusitati e fecondi link.

Una lunghissima carriera, la sua, come la vita. Joan si spense a novant’anni, nel 1983 a Maiorca dove si era stabilito, fra l’azzurro del cielo e quello del Mediterraneo in tutte le loro gradazioni, sfumature e suggestioni. Onirico e irrazionale mescolati all’osservazione del reale, ricreato, quest’ultimo, da una sorta di lanterna magica. Un altro occhio, invisibile e tuttavia non meno presente.

L’esposizione monzese, curata da Lola Durán Úcar si configura come un intelligente percorso nell’evoluzione artistica di Miró, mostrandone non solo gli sviluppi, ma anche la versatilità (innumerevoli i materiali usati – pure papiro e carta di giornale – e le tecniche) e il poliedrico ingegno.

Bisogna dipingere camminando sulla terra, affinché la sua forza entri dai piedi, diceva il pur aereo Joan. E ancora… è come il velluto la luce della luna piena, quando vola nel cielo arancione sopra le montagne di Genova, con una stellina vicino. Sono soltanto cinque o dieci minuti, ma è come il velluto, come la sera. Poi se ne va. Non stupisce dunque che Miró potesse anche lavorare, con immenso lirismo di macchie e linee, intorno ai versi del Cantico: “Le parole di San Francesco d’Assisi sono tradotte da Joan Miró in immagini piene di astri, creature, onde, prati, il mare… espresse con un minimo gesto per arrivare al massimo della purezza.”

Collaborazioni infinite coltivò Miró, con editori e poeti in imprese artistiche scintillanti, in una perfetta commistione/compenetrazione di generi (vedi la meravigliosa reciprocità con Rafael Alberti: Maravillas con variaciones acrósticas en el jardin de Miró, in mostra). Magnifica la serie di incisioni Les pénalités de l’enfer ou les Nouvelles Hébrides concepite per illustrare una delle opere poetiche di Robert Desnos (morto nel 1944 nel Ghetto di Theresienstadt): Come tutti i surrealisti, Desnos era ossessionato dal linguaggio come materiale visivo e fonetico che poteva essere utilizzato in totale libertà. Considerava la poesia un atto d’amore dove il poeta si abbandonava con anima e corpo, come una specie di abbraccio. Miró la pensava allo stesso modo: Ciò che conta è mettere a nudo la nostra anima. La pittura o la poesia si fanno come si fa l’amore; uno scambio di sangue, un abbraccio totale, senza alcuna cautela, senza alcuna protezione.”

Questa collaborazione fu postuma, in quanto avvenne, su sollecitazione della vedova, dopo la morte del poeta a Theresienstadt. Les pénalités de l’enfer ou les Nouvelles Hébrides era una raccolta inedita. Un risvolto oltremodo toccante.

E che cosa diceva ancora Miró riguardo al suo processo creativo? … nasce sempre da uno stato di allucinazione, provocato da uno shock, oggettivo o soggettivo, e del quale sono completamente irresponsabile. Riguardo il mio mezzo espressivo cerco di raggiungere il massimo di chiarezza, potenza e aggressività plastica, ovvero provocare prima una sensazione fisica per arrivare successivamente all’anima. Tutto vero, ma, al tempo stesso, l’elaborazione formale è sapientissima. E sapeva perdersi nella immane forza della Natura… “Poteva passare ore esaminando le pietre e i ciottoli che catturavano la sua attenzione, toccando l’erba o la sabbia della spiaggia, osservando gli uccelli mangiare e i pesci nuotare, cercando gli insetti… Trovava la pace contemplando i campi e osservando il lavoro dei contadini, incantato da quello che la natura gli dava.”

Un gigante dalle gentili potenti cromie e dai plurimi significati, ivi incluso il meraviglioso incognito, cui Monza ha reso omaggio con una mostra di straordinaria forza evocativa.

Alberto Figliolia

Joan Mirò-La poesia delle forme. Belvedere, Villa Reale di Monza. Fino al 5 maggio 2024.

Orari: da mercoledì a venerdì, 10-16; sabato, domenica e festivi, 10,30-18,30 (la biglietteria chiude un’ora prima). 25 aprile e 1 maggio, 10,30-18,30.

Info: sito Internet https://miromonza.com/, e-mail mostramiromonza@gmail.com.

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