Tanka

Il vento gelido.

Una magnolia, un corvo.

L’aria grigiastra.

Una donna incinta va,

un fiore fra i capelli.

Alberto Figliolia

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È sempre una meravigliosa arca di meraviglie la Cineteca Milano (Arlecchino o MIC che sia). Archiviata la serata futurista andata sugli schermi giovedì 2 marzo, in via San Pietro all’Orto 9, con Formidabile Boccioni (E. Zamparutti, P. Muscarà, F. Rado, Italia, 2022, 54’) “Un documentario che omaggia e ricostruisce il percorso artistico di Umberto Boccioni a 140 anni dalla nascita. Il nastro della storia si riavvolge in un lampo e siamo nel 1927, quando le sue sculture vennero ridotte in polvere da Piero da Verona. Raptus di follia o un modo per impedire speculazioni post mortem? Il documentario tenta di dare una risposta a questa domanda.”cui è seguita la proiezione del raro e prezioso Thaïs (A. G. Bragaglia. Italia, 1917, 35’), con l’accompagnamento dal vivo del pianoforte di Antonio Zambrini – “Vicenda sentimentale con tragico epilogo: protagonista un’affascinante contessa Thaїs, seduttrice di uomini, preferibilmente sposati, che porta alla totale rovina. Thaїs è l’unica pellicola sopravvissuta d’ispirazione futurista, di cui sfrutta la visionarietà grazie alle scenografie (ipnotiche, geometriche, simboliche) disegnate dal pittore Enrico Prampolini e che ispireranno l’espressionismo tedesco degli anni Venti. Il film è anche un’opera fortemente anticonvenzionale nei confronti del filone del melodramma italiano del decennio.”  – è la volta sino al 31 marzo di un magnifico ciclo western, per un totale di dieci film, di John Ford: Questione di orizzonti, il titolo della rassegna. E non poteva esservi miglior titolo se si pensa agli splendidi paesaggi e cieli della frontiera fordiana. Davvero in quelle pellicole il paesaggio assurge al ruolo di autentico personaggio: bellissimo, maestoso e crudele. E il cielo stesso incombe, quasi soverchiando le minute figure umane che sotto di esse svolgono e dipanano le proprie storie individuali, sovente drammatiche se non tragiche, in un destino che pare avere il marchio dell’ineluttabilità.

Le pellicole in visione (al MIC, viale Fulvio Testi 121)  saranno:

Drums Along the Mohawk-La più grande avventura (31 marzo, ore 15.30), tratto dall’omonimo romanzo di Walter D. Edmonds (USA, 1939, 104’, v.o. sott. it. Int.: Henry Fonda, Claudette Colbert) –  “A ridosso della Guerra d’Indipendenza, un colono e sua moglie si trasferiscono nella valle dei Mohawk, trovandosi a combattere per la libertà del territorio. Prima pellicola a colori girata da John Ford e grande successo al botteghino.”

The Grapes of Wrath-Furore (29 marzo, ore 15,30), tratto dall’omonimo romanzo capolavoro del Nobel John Steinbeck (USA, 1940, b/n, 129’, v.o. sott. it. Int.: Henry Fonda, Jane Darwell). – “Dopo aver scontato la sua pena, l’ergastolano Tom Joad torna dalla sua famiglia, sfrattata a causa della Grande Depressione. Insieme intraprenderanno un viaggio verso la California. Vincitore del Premio Oscar per la regia e per la migliore attrice non protagonista (Jane Darwell).” Un film epocale, con un Henry Fonda superlativo.

Rio Grande-Rio Bravo (29 marzo, ore 17.45),   tratto dal racconto Mission with No Record di James Warner Bellah (USA, 1950, b/n, 105’, v.o. sott. it. Int.: John Wayne, Maureen O’Hara). “In attesa di oltrepassare il confine tra Stati Uniti e Messico, un colonnello incontra dopo anni il figlio e la moglie, abbandonati durante la guerra civile. Il primo film girato dalla coppia Wayne/O’Hara e ultimo capitolo della trilogia dedicata da Ford alla cavalleria americana.”

Fort Apache-Il massacro di Fort Apache (30 marzo, ore 15.30), tratto dal racconto Massacre di James Warner Bellah (USA, 1948, b/n, 128’, v.o. sott. it. Int.: John Wayne, Henry Fonda, Shirley Temple). “Un generale, ora retrocesso a comandante di Fort Apache, cerca una rivalsa personale scatenando un violento scontro con gli indiani della zona. Rilettura del massacro di Little Big Horn in cui perse la vita il generale Custer e primo capitolo della trilogia dedicata da Ford alla cavalleria statunitense.

The Fugitive-La croce di fuoco (28 marzo, ore 17.30), tratto dal romanzo The Power and the Glory di Graham Greene (USA, 1947, b/n, 104’, v.o. sott. it. Int.: Henry Fonda, Dolores del Rio). “Un prete, missionario in un paese dell’America Latina dove la professione della religione è proibita, deve fuggire da una morte certa. Il film è stato presentato in concorso alla nona Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove ha ricevuto il Premio Internazionale.”

Stagecoach-Ombre rosse (24 marzo, ore 17.30), tratto dal racconto The Stage to Lordsburg (USA, 1939, b/n, 96’, v.o. sott. it. Int.: John Wayne, Claire Trevor, Thomas Mitchell). “Un variegato gruppo di persone si mette in viaggio a bordo di una diligenza diretta a Lordsburg. Nel tragitto incontreranno i temibili Apache. Pietra miliare del cinema western e primo ruolo da protagonista per John Wayne. Ford ottenne la candidatura all’Oscar per la miglior regia mentre il film vinse le statuette per il migliore attore non protagonista (Thomas Mitchell) e per la migliore colonna sonora.” Un film che rappresenta, in un ambiente chiuso, claustrofobico, opposto ai sterminati spazi esterni, un finissimo studio psicologico dei vari tipi umani. E pathos a non finire. Con la folgorazione di Marion Robert Morrison, alias l’iconico John Wayne, nei panni di Ringo Kid, prototipo, piaccia o non piaccia, dell’eroe stars-and-stripes. coraggioso, onesto, generoso, temerario.

The Man Who Shot Liberty Valance-L’uomo che uccise Liberty Valance (30 marzo, ore 17.45),  tratto dal racconto omonimo di Dorothy M. Johnson (USA, 1962, b/n, 123’, v.o. sott. it. Int.: James Stewart, John Wayne). “Un senatore racconta ai giornalisti della piccola Shinbone l’uccisione del bandito Liberty Valance, evento che anni prima sconvolse la piccola cittadina. Western crepuscolare interpretato da due icone del genere. Presentato al 32esimo Festival Internazionale del Cinema di Berlino e candidato all’Oscar per i migliori costumi.” E mai si celebrerà la grandezza di un attore quale James Maitland Stewart, capace di spaziare con soave maestria e abilità interpretativa fra i più vari generi: western (Winchester ’73, L’amante indiana, L’uomo di Laramie, Lo sperone nudo et alia), thriller (La finestra sul cortile e La donna che visse due volte, Alfred Hitchcock), commedia (La vita è meravigliosa, Frank Capra).

How the West Was Won-La conquista del West (16 marzo, ore 17.30), con Henry Hathaway, George Marshall, Richard Thorpe. Pellicola ispirata ai racconti, che uscivano a puntate, dell’autore di genere e di culto Louis L’Amour (USA, 1962, 164’, v.o. sott. it. Int.: Carroll Baker, Henry Fonda, Debbie Reynolds. “Film ad episodi in cui le vicende di una famiglia fanno da sfondo all’epica storia del West. Magniloquente affresco storico, realizzato dai più grandi registi americani dell’epoca, di cui Ford diresse l’episodio dedicato alla guerra civile. Tre Premi Oscar: migliore sceneggiatura, miglior montaggio e miglior sonoro.”

The Searchers-Sentieri selvaggi (17 marzo, ore 17.45
e 31 marzo, ore 17.45), tratto dall’omonimo romanzo di Alan Le May (USA, 1956, 119’, v.o. sott. it. Int.: John Wayne, Jeffrey Hunter. “Un veterano della guerra di secessione si mette alla ricerca della nipote, rapita dagli indiani dopo averne massacrato la famiglia. Capolavoro della filmografia di Ford, impreziosito da splendidi paesaggi e inquadrature.” Di incredibile ambientazione naturalistica, davvero indimenticabile, e di spasmodica tensione.

My Darling Clementine-Sfida infernale (22 marzo, ore 17.45
e 28 marzo, ore 15.30),  tratto dal romanzo Wyatt Earp, Frontier Marshal di Stuart N. Lake (USA, 1946, b/n, 97’, v.o. sott. it. Int.: Henry Fonda, Linda Darnell). “Il pistolero Wyatt Earp accetta l’incarico di sceriffo della cittadina di Tombstone dopo che il fratello rimane violentemente ucciso. Una delle migliori interpretazioni di Henry Fonda, qui nei panni di una leggenda del West. Premio come miglior film straniero ai Nastri d’Argento 1948.”

Delle dieci pellicole due sono in apparenza fuori contesto o, in ogni caso, sui generis, vale a dire Furore, che pure si svolge nella parte occidentale degli Stati Uniti, ma in un periodo al di fuori dei limiti temporali canonicamente fissati per il western dei pionieri, e La croce di fuoco, al di là dei confini del Grande Paese. Ma la temperie emotiva è in toto quella della frontiera.

Un ciclo decisamente imperdibile per ripassare un genere che ha segnato la storia della settima arte e il nostro immaginario.

Alberto Figliolia

Cineteca Milano MIC, viale Fulvio Testi 121 Milano Bicocca.
Biglietto intero € 7,50;, ridotto € 6,00. Cinetessera 2023 € 15,00 disponibile presso tutte le sedi di Cineteca Milano.

Consigliato l’acquisto online su www.cinetecamilano.it.

Info e-mail info@cinetecamilano.it, sito Internet  http://www.cinetecamilano.it.

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Tosca-Teatro del Vigentino, sabato 11 marzo 2023

Ricevo e volentieri pubblico…

Una produzione divulgativa della compagnia operistica FILRŌ
frutto del progetto “Così Fan Lirica”

Sabato 11 marzo 2023 ore 20.30

Teatro del Vigentino Via Matera 5/7 – Milano, 20142


Il Teatro del Vigentino, casa dell’improvvisazione teatrale di Milano dal 2005, col patrocinio del Municipio 5,
ha il piacere di ospitare per la prima volta sul suo palco l’Opera lirica, in un nuovo formato.

Sulle note di Giacomo Puccini, la compagnia operistica FILRŌ, porta in scena uno dei testi più famosi del mondo della lirica:
una Tosca dal “taglio” originale, dinamica e con una drammaturgia ricca di colpi di scena.
Un vero thriller in musica, in un intreccio che parla di fughe di dissidenti politici, omicidi, suicidi, gelosia e ovviamente amori passionali.

TRAMA

Roma, giugno 1800. Qualche giorno dopo la battaglia di Marengo, nell’atmosfera tesa che segue l’eco degli avvenimenti rivoluzionari in Francia e la caduta della prima Repubblica Romana, la cantante Floria Tosca, amante del pittore liberale Mario Cavaradossi, è corteggiata dal ministro della polizia pontificia Scarpia. Questi imprigiona il pittore e ricatta Tosca: se la donna non si concederà a lui, Cavaradossi sarà fucilato. Tosca si fa dare il salvacondotto da Scarpia e poi lo ucciderà. Il pittore, secondo i patti con Scarpia, avrebbe dovuto subire una finta fucilazione, ma invece viene davvero passato per le armi sugli spalti di Castel Sant’Angelo. Tosca allora si getta dal castello.

ASSOCIAZIONE FILRŌ – artisti under 35 anni  https://www.filro.art/

Fondata insieme al socio Renato Ocone da Filippo Rotondo – dopo il diploma al Conservatorio di Milano, la Scuola dell’Opera del Teatro Comunale di Bologna e un master in regia a Verona – l’associazione nasce dal desiderio di creare nuovi format per poter offrire opportunità a giovani professionisti che ruotano intorno al mondo dell’Opera, con progetti ad hoc, a contatto con pubblico e istituzioni di prestigio.

Attraverso il progetto “Così Fan Lirica” si prefigge l’obbiettivo di portare l’Opera in nuovi contesti culturali, coinvolgendo sia grandi appassionati che nuovi spettatori.

«L’Opera è tutta la nostra vita, le abbiamo dedicato tutti i nostri studi», spiegano i due fondatori e direttori artistici. «In virtù di questa viscerale passione, proprio durante la pandemia ci siamo chiesti da un lato come poter essere utili ai nostri giovani colleghi, magari in difficoltà proprio appena diplomati. E dall’altro quali difficoltà possa incontrare un pubblico, anche di nostri coetanei, nell’apprezzare tal genere, rispetto a fattori come durata della rappresentazione o costo del biglietto. Da qui l’idea di portare l’opera lirica in contesti alternativi da quelli ufficiali, più abbordabili, a un prezzo accessibile e in versioni ridotte, che eliminando elementi di contorno vadano a ridurre le canoniche tre ore di spettacolo a massimo un’ora e mezza. Le storie rimangono invariate, ma attraverso i tagli la trama si semplifica, agevolando soprattutto lo spettatore novello a capirne lo svolgimento, mantenendo però inalterato il fascino dell’opera lirica quanto a costumi, luci ed elementi scenici.

Questa operazione è un’opportunità per portare l’Opera all’attenzione di quanti ancora non la conoscano, o per pregiudizi dovuti all’età o per mancanza d’abitudine, senza sapere quanto potrebbe invece piacere o toccare loro questa forma d’arte».

Filippo Rotondo: «Questo progetto sta dando i suoi frutti, non solo rispetto ai primi gruppi di giovani affezionati che stanno cominciando a seguirci, ma anche per la possibilità offerta ad attori e cantanti talentuosi, tutti under 35, di mettersi in gioco in un ambiente dinamico, stimolante e al tempo stesso sperimentale, nel quale coltivare proprie capacità artistiche e muovere i primi passi nel mondo dello spettacolo».

L’associazione ambisce a creare una rete capillare che possa connettere cantanti, registi, scenografi, musicisti e altri artisti del settore con realtà interessate a promuovere la cultura. E nel contempo offrire alle istituzioni e ai luoghi coinvolti la possibilità di raccontare i propri spazi, storia e patrimonio attraverso un nuovo linguaggio artistico.

Dopo il debutto con Le nozze di Figaro di Mozart, in scena nel settembre 2021 alla Villa Reale di Monza, la compagnia, residente a Milano, ha iniziato una tournée in tutta Italia. Mentre sono in via di definizione le prossime date in calendario, che comprendono diversi titoli, viene intanto confermata la replica del prossimo sabato 11 marzo a Milano: Tosca di Giacomo Puccini. Già in scena lo scorso anno a Napoli in una versione itinerante al Museo della Moda, verrà riproposta al Teatro del Vigentino.

«In questa nostra terza tappa milanese, ospitati nel teatro di Isabella Cremonesi, abbiamo scelto di portare Tosca non solo perché una delle opere più note e affascinanti di Puccini, ma anche perché terribilmente moderna, con un ritmo cinematografico in un ciclo musicale inarrestabile e coinvolgente. Una musica meravigliosa e una trama avvincente condensate in un’opera molto forte e brutale, a nostro avviso perfetta, nei nostri intenti, per impressionare e conquistare il pubblico milanese», spiega Rotondo.

Isabella Cremonesi, direttore artistico del Vigentino: «Appena ho conosciuto l’associazione FILRŌ ho subito sposato con entusiasmo la loro missione di diffondere l’Opera lirica in spazi e teatri non convenzionali, in formato “ridotto” e a prezzo accessibile. Un modo per sostenere giovani professionisti – che mai come di questi tempi ne hanno bisogno – ma soprattutto stuzzicare intelligentemente quel pubblico che ancora non conosce questo genere, magari solo per pregiudizio. La loro brillante e coraggiosa iniziativa sarà un bel modo per incuriosire gli spettatori di un quartiere come quello del Vigentino, solitamente abituato a un intrattenimento più leggero, avvicinandolo così a questa forma d’arte, vanto della tradizione italiana. E chissà che accanto alla nostra improvvisazione, scanzonata e divertente, questo formato di lirica non possa diventare un nuovo appuntamento al Vigentino, per vecchi e nuovi spettatori!»

T O S C A

SABATO 11 MARZO 2023 ore 20.30

TEATRO DEL VIGENTINO

Via Matera 5/7 – 20142 Milano

Regia: Filippo Rotondo
Direttore musicale e pianoforte: Maria Silvana Pavan
Event designer: Renato Ocone
Tosca: Beatrice Amato
Cavaradossi: Zi-Zhao Guo
Scarpia: Filippo Rotondo
Attori: Federico Guidi, Xuè Pei

PRENOTAZIONI E INFORMAZIONI: prenotazioni@teatrodelvigentino.it
(specificando nome, cognome e quanti posti)

PREZZI: Biglietto unico € 25,00

PREVENDITE: Invio e-mail di avvenuto pagamento con prenotazione tramite Satispay a isabella@teatrodelvigentino.it

BIGLIETTERIA aperta dalle ore 19.30 della sera del debutto – Ritiro biglietti entro le ore 20.15

La sera stessa sarà possibile pagare in contanti o pos

MEZZI PUBBLICI: tram 24 (Ripamonti-Barletta); bus 34 (Ripamonti-Barletta); bus 95 (Ripamonti)

www.teatrodelvigentino.it

02 55 23 02 98 

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L’ombra di Goya

Non solo la Maja desnuda o la Maja vestida, ossimoro di un’essenza. La sua arte copriva un vastissimo spettro di situazioni, l’ispirazione era multiforme come pochissime altre e formidabile la capacità interpretativa dei fatti storici o l’abilità di osservatore. Ritrattista magnifico e incisore superbo, un maestro anticipatore, un realista e un visionario. È persino difficile parlare o scrivere di Goya tale era la sua eccellenza tecnica, tale la fantasia di riproduzione. Lui va al di là… Un maestro anticipatore, un gigante.  Francisco José de Goya y Lucientes, nato a Fuendetodos il 30 marzo 1746, semplicemente uno dei più grandi pittori mai esistiti.

A celebrare il genio dell’aragonese giunge il bellissimo docufilm L’ombra di Goya, che, dopo essere stato presentato al 75esimo Festival di Cannes, arriverà il 6, 7 e 8 marzo nelle sale italiane. Diretto da José Luis López-Linares, ad accompagnare gli spettatori nell’itinerario di scoperta di Goya è uno degli autori della sceneggiatura  Jean-Claude Carrière (l’altra artefice è

Otero Roth). Un viaggio nel mistero di un’opera creatrice tanto vasta e affascinante, anche nei suoi momenti più cupi,  come negli anni successivi alla malattia che condusse Francisco alla sordità totale. È il periodo de I disastri della guerra, Il 2 maggio 1808, Il 3 maggio 1808, di dipinti in cui compaiono folli, prigionieri, streghe e creature da incubo, con la dimostrazione, in ogni caso, di un’originalità incomparabile e di una maestria senza limiti. Un culmine raggiunto con le Pitture nere (1819-1823), che costellavano la sua casa, la Quinta del Sordo, ai margini della capitala ispanica. E vanno ricordati anche gli innumerevoli lavori sulla corrida, spettacoli di vita e di morte, metafora della dolorosità, ineluttabilità e ferinità dell’esistenza umana.

Detto del virgiliano Carrière, altri specialisti si avvicendano a commentare la pittura e la vita di Goya, come il regista e pittore Julian Schnabel o un medico specialista che interpreta i quadri di Goya tenendo conto della sua menomazione sensoriale.

“Eccezionale ritrattista, celebrato pittore della corte spagnola, narratore acuto e spietato osservatore dei vizi, dei paradossi umani e dell’ipocrisia moderna…”, inquietante spesso – Saturno che divora i suoi figli, i Capricci, il Colosso – ma talora anche etereo e gioioso – vedi i cartoni degli arazzi o taluni cicli di affreschi – “una sensibilità straordinaria e una mente in continuo movimento, in perenne ricerca. Una ricerca e un interrogarsi sul destino umano che rappresenta la cifra più impressionante e potente di Goya, dall’infanzia trascorsa a Saragozza, dove emerse per la prima volta la sua urgenza di diventare artista, sino alle Pinturas negras”.

Un artista a cavallo di due secoli, in un’epoca di rivolgimenti e trapasso. “La fine del Settecento non aveva segnato solo la fine di un secolo, ma un passaggio cruciale tra vecchio e nuovo, in bilico tra antiche ossessioni e nuovi indomiti fantasmi. Dopo la Rivoluzione francese, i semi del cambiamento politico e sociale erano stati irrimediabilmente gettati e l’Europa non sarebbe stata più la stessa. È in questo contesto che si muove il dissacrante pittore spagnolo nel cui immaginario e nelle cui creature fantastiche predominano i temi della rivoluzione, del carnevale e della rivolta all’ordine precostituito. Una capacità speciale di indagare i mondi alla rovescia in cui vengono ribaltate tutte le gerarchie: quelle tra servi e padroni, quelle tra uomini e animali, quelle tra maschile e femminile”.

Jean-Claude Carrière, scomparso nel 2021 – la pellicola è dunque anche un omaggio a lui – svolge il suo ruolo in maniera perfetta, esemplare. Amico di Luis Buñuel, riesce a creare e mostrare con levità e sapienza il legame che congiungeva i due grandi aragonesi, la surrealtà come una delle matrici identitarie  (anche il regista era affetto da sordità).

Un film d’arte – e magnifica anche la colonna sonora – che è un’immersione in un universo bizzarro, vitalistico, commovente, sensuale, dove il quotidiano rimbalza nell’infinito e l’infinito si frammenta in altrettanti infiniti rivoli di conoscenza e di emozione.

Alberto Figliolia

L’ombra di Goya. Produzione Mondex Films, Zampa Audiovisual, López Li Films, Fado Filmes, Milonga Productions.

La Grande Arte al Cinema è un progetto originale ed esclusivo di Nexo Digital.

Per il 2023 la Grande Arte al Cinema è distribuita in esclusiva per l’Italia da Nexo Digital con i media partner Radio Capital, Sky Arte, MYmovies.it e in collaborazione con Abbonamento Musei.

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“I giganti-Storia di basket e acciaio” di Andrea Fanetti

“… sentivo le mani farmi sempre male e la schiena più rigida. Com’è diversa la fatica da lavoro da quella degli allenamenti! I movimenti là in cantiere non erano quelli armonici del salto e della corsa, le posture si adattavano alle macchine, ai pezzi da montare, agli attrezzi da usare e lì per lì neanche te ne accorgi; poi ti raffreddi e i muscoli lo dicono che gli hai fatto fare qualcosa di innaturale. Addosso a un corpo di vent’anni sentivo dolori che pensavo fossero roba da vecchi.”

Il rimbalzo di una palla a spicchi su un campo all’aperto. Il ciuff della retina che accoglie un tiro dalla parabola perfetta. L’appoggio al tabellone di legno. Questa è magia… Ogni amante della sfera arancione (difatti in gergo, affettuosamente, si chiama anche arancia) – colore di base, nonostante le tante variazioni succedutesi nel tempo – non può resistere a queste immagini o alla meraviglia del ricordo o alla tentazione di far due tiri al campetto, foss’anche da soli (ciò che consente di raccogliere i pensieri). Poi ci sono le infinite sfide da playground: dal 3 contro 3 al 5 contro cinque (la via di mezzo del 4 contro 4 a metà campo è quella preferita da chi scrive).

I giganti-Storia di basket e acciaio di Andrea Fanetti, Edizioni IL FOGLIO (2022, pp. 206, euro 12), è un romanzo (di formazione) struggente, di nostalgia e passione, con il gran merito di incrociare l’amore verso uno sport e le dure necessità della vita. Peraltro non è che la pratica della pallacanestro sia sempre lieve come una piuma. O, meglio, lo è per l’entusiasmo con cui ci si approccia alla disciplina, per la divorante felicità che può procurare, per l’altalena di emozioni che sa donare, anche nel piccolo (grande) abisso della sconfitta, specchio e metafora dell’esistenza. Ma, per imparare e per cimentarsi, è necessario sempre un lungo e faticoso apprendistato.

Nessuno aveva mai osato narrare, con tale nettezza e forza, di un itinerario in cui pallacanestro e lavoro si incrociassero. I luoghi sono quelli toscani, paesaggi baciati dal sole, dalla Natura e dalla Storia (queste ultime scritte con l’iniziale maiuscola) – Venturina e Piombino in primis, ma le sfide per ogni dove di quella Toscana sono tante – i protagonisti Michele-Mike (l’io che narra), John-Gianni e un’infinità di personaggi a corollario, fra i quali va citato il primo coach, Piero.

Michele, famiglia di estrazione operaia, è un play-guardia e Gianni, figlio di un noto avvocato, un lungo. Il primo è un buon giocatore, ma l’avvenire non è da serie A, diversamente da Gianni, che invece finirà per approdare a Siena, fulgida stella del firmamento cestistico e, infine, per tanti anni, con la sua filosofia vagabonda e i suoi giorni controcorrente, nel basket delle serie minori. Michele è un coach in pectore: studia il gioco, le tattiche, ama insegnare, curando i fondamentali e nutrendosi della materia intellettiva e sentimentale del gioco. Michele è un allenatore-educatore. Il suo sogno sarebbe quello di divenire un coach di professione, ma la talora impoetica realtà lo catapulta altrove, nel mondo del lavoro, nelle acciaierie, laddove è il travaglio di un’umanità fiera e dolente, in un antinferno di condivisione, lacrime, rabbia, paura, fumo, fatica dignità e… morti sul lavoro. Un dramma mai estinto, una piaga tuttora aperta nel Bel Paese. Una dicotomia insanabile per il giovane Michele? Basket o lavoro? Sistemarsi o proseguire in una scelta in ogni caso mai sposata appieno? In e con tutto ciò si dipana la storia, la cronologia degli eventi svolgendosi implacabile, necessaria. Anche se le strade divergono il vincolo dell’amicizia fra Michele-Mike e John-Giovanni non si scioglierà mai. Gioia e dramma si alternano, scampoli di serenità e di felicità con situazioni ben più cupe.

La commistione degli elementi e dei caratteri è perfetta, la galleria dei personaggi ricca e di varia umanità, le pagine fluiscono con bella facilità e profondità di pensieri. Il basket è il fil rouge (la competenza dell’autore è indubbia, come ben si comprende dalla descrizione del gioco), ma anche l’ardua materia del lavoro penetra le fibre… “Poi certe volte la giornata cambiava d’improvviso se avvenivano guasti importanti; allora era fatica vera, c’era da farsi il culo, sporcarsi in abbondanza, respirare sostanze nocive e spesso ci scappava pure qualche infortunio.”

Tutto il racconto è perfettamente contestualizzato con gli eventi locali, soprattutto la vita in fabbrica, e gli avvenimenti del vasto mondo. Dal panorama dell’adolescenza carica di ogni sogno e possibilità – fumetti (citati Tex, Zagor, Capitan Miki, Grande Blek), amicizie, primi amori, desideri, aspettative – all’ingresso nell’età adulta, una sorta di fine del gioco… E il libro si suddivide in sezioni che riproducono una partita di basket: dopo la premessa, quattro quarti (una volta erano due tempi da 20′), con un intervallo e, in fondo, un overtime. Ogni capitolo è (quasi) autoconclusivo, mai slegato dall’insieme ma, nel contempo, godendo di una specie di autosufficienza. Citiamo, fra gli altri, Venturina, due amici, Il Campino dei giardini (e in quel diminutivo ci sta il soave morso del ricordo), Il primo campionato, Famiglie, Tornei estivi (momenti indimenticabili, nella brezza e nel frinito delle cicale), Ostacoli famigliari, Filosofia di gioco (essenziale esplicazione, la difesa come sacrificio, opportunità e dedizione al bene comune), Partite e feste di Partito (come dimenticare quello spaccato dell’Italia che fu?), Allievi ’64, Esami, Afo4 (“Alle acciaierie, quelle che mio padre chiamava le sue acciaierie, i tre altiforni che fino allora avevano rappresentato il cuore produttivo dell’azienda stavano per cedere definitivamente il passo a un gigante, quello che sarebbe divenuto l’altoforno numero quattro, all’epoca uno dei più grandi d’Europa…”), In cantiere, Personaggi da cantiere, L’ultima partita, Non smettere!, Morti bianche, Via dal cantiere, Naja, Il Gigante, Distacchi, Lavorare stanca, I ragazzi del ’66, Coach, La prima di campionato, Luglio ’81, Due partite, In Magona, Ciao Venturina, Canestri e vinili, Ritorno a Piombino, I ragazzi del ’71, Addio al basket, Un incidente di mezz’estate, Ricordi, Un pallone, Ritrovarsi, Il ritorno, Fine della partita.

Ogni fine, tuttavia, è un nuovo inizio. Un campo da basket per un antico appassionato è da sempre come il richiamo della foresta… E il cerchio si chiude con serenità, la nostalgia come un mare foriero di idee feconde, voci e, ancora e sempre, desideri e speranze.

“I giganti sono quei ragazzi altissimi che puoi incontrare in un campo di basket. I giganti sono gli impianti industriali come l’altoforno. I giganti sono quelli che si alzano la mattina presto, fanno un lavoro duro, eppure vanno avanti per guadagnarsi di che vivere anche a rischio della vita stessa. I giganti sono coloro che non smettono di sognare.”

Alberto Figliolia

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“Bosch e un altro Rinascimento”-Palazzo Reale di Milano

Quale pittore è più  immaginifico di Jeroen Anthoniszoon van Aken, alias Jheronimus (o Hieronymus) Bosch (1453-1516)? O terrifico? Fra sogno, che vira in incubo, caleidoscopio di mondi onirici e infernali, mostri in quantità, santità conclamate in maniera semi-eterodossa, figurazioni allucinate e figure fantastiche, le opere di Bosch non cesseranno mai di stupire la platea di ammirati spettatori che trascorreranno innanzi a esse. La dovizia di particolari, la cura del dettaglio, l’infinita vastità e la congerie multiforme dei personaggi di Bosch sono senza pari.

Invero la mostra dedicata dal Palazzo Reale di Milano al genio del Rinascimento “alternativo” presenta lavori di Bosch e di coloro che ne furono seguaci, emuli o meri imitatori e che furono coinvolti nella splendida e imprevedibile temperie derivatane. Un genio, un visionario, capace di ispirare, con le sue inquietudini immaginative ed esistenziali e con le sue ossessioni, innumerevoli altri artisti a venire.

Che dire di fronte allo spettacolare Trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio (1500 circa)? Si resta semplicemente stupefatti. Ci vorrebbe una lente d’ingrandimento per studiare ogni minimo dettaglio. Il San Giovanni Battista (1495 circa), in apparenza più  “elementare” (almeno rispetto ai modi boschiani), è in ogni caso carico di elementi simbolici. Nella scena, più nuda, risalta tutta la solitudine del santo e il misticismo pervade l’atmosfera. Colori più cupi ha il Trittico dei Santi Eremiti (1495-1505 circa), disseminato di elementi, e di suggestione tremenda il Giudizio finale (1500 circa).

“Milano per la prima volta, sotto la direzione artistica di Palazzo Reale e Castello Sforzesco, rende omaggio al grande genio fiammingo e alla sua fortuna nell’Europa meridionale con un progetto espositivo
inedito che presenta una tesi affascinante: Bosch, secondo i curatori, rappresenta l’emblema di un Rinascimento ‘alternativo’, lontano dal Rinascimento governato dal mito della classicità, ed è la prova
dell’esistenza di una pluralità di Rinascimenti, con centri artistici diffusi in tutta Europa”. Una tesi affascinante, che tiene conto delle vie e delle specificità nazionali, per quanto la circolazione delle idee fosse più diffusa di quel che si può credere.

Come detto, in esposizione vi sono innumerevoli altre opere: dal Vertumnus (1590) di Giuseppe Arcimboldo agli splendidi arazzi della Manifattura di Bruxelles (1550-1570 circa), che raffigurano Il carro di fieno (Tribolazioni della vita umana), Il giardino delle delizie, San Martino e i mendicanti, Le tentazioni di Sant’Antonio; dalle stampe ai disegni, Leonardo da Vinci compreso, con le fisionomie grottesce dal Codice Trivulziano, e alle incisioni di Pieter Bruegel il Vecchio. “Le incisioni contribuirono in maniera decisiva alla diffusione del gusto per le immagini di incendi notturni, scene di stregoneria, visioni oniriche e magiche. Lo confermano opere come lo Stregozzo di Marcantonio Raimondi o Agostino Veneziano, il Mostro marino di Albrecht Dürer e il capolavoro letterario-editoriale di Aldo Manuzio, la Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, e anche l’Allegoria della vita umana di Giorgio Ghisi”.E, ancora, una stupenda interpretazione, un olio su pietra, delle tentazioni di Sant’Antonio (1595-1605 circa) per opera di Jacob van Swanenburg, sculture, bronzetti, volumi antichi e altri oggetti rari e preziosi provenienti da wunderkammern (fra cui una riproduzione dell’automa diabolico della Collezione Settala). “… è opportuno sottolineare l’immensa importanza in termini artistici ed economici dell’arazzo nella cultura del Cinquecento europeo: era un vero e proprio status symbol dell’élite. Ecco perché poter ammirare, grazie ai prestiti dell’Escorial e delle Gallerie degli Uffizi, l’intero ciclo degli arazzi boschiani è un’occasione irripetibile: infatti, i quattro arazzi dell’Escorial non sono mai stati esposti insieme fuori dalla loro sede”. Sono, in effetti, per le dimensioni e la squisita fattura opere che rubano letteralmente l’occhio.

“In questo ricchissimo corpus spiccano alcuni dei più celebri capolavori di Bosch e opere derivate da soggetti del Maestro – mai presentate insieme prima d’ora in un’unica mostra. Bosch è infatti autore di pochissime opere universalmente a lui attribuite e conservate nei musei di tutto il mondo.  L’esposizione di Palazzo Reale non è una monografica convenzionale, ma mette in dialogo capolavori tradizionalmente attribuiti al Maestro con importanti opere di altri maestri fiamminghi, italiani e spagnoli, in un confronto che ha l’intento di spiegare al visitatore quanto l’‘altro’ Rinascimento – non solo italiano e non solo boschiano – negli anni coevi o immediatamente successivi influenzerà grandi artisti come Tiziano, Raffaello, Gerolamo Savoldo, Dosso Dossi, El Greco e molti altri”.

Va detto che il pittore, nativo delle Fiandre, divenne presto popolarissimo nell’Europa meridionale, suscitando una vasta eco e multiforme ispirazione. “Le composizioni religiose e profane di Bosch sono anche dominate dal concetto di complessità del reale che, nella sua estremizzazione, si popola di figure scomposte, di situazioni paradossali e illogiche, di esseri destrutturati, mostruosi e crudeli, ma anche di figure purissime di giovani ignudi che popolano la terra senza
pudori: insomma un mondo capovolto. In questo universo la tentazione e l’errore sono sempre in agguato, pronti a rovinare l’uomo. L’uomo del Cinquecento era consapevole che le opere d’arte portavano
messaggi simbolici che andavano interpretati in senso educativo e formativo e pensiamo che in questa dimensione accogliessero e apprezzassero questi soggetti con particolare favore. Il cosiddetto ‘mondo delle grottesche’ è l’altra faccia della stessa medaglia del fantastico in Bosch. La moda dell’arte ‘alla Bosch’ rimanda infatti a un interesse già affermato per le “mostruosità” e il “grottesco”, che apparve in maniera dirompente alla fine del Quattrocento in Toscana e in Italia
settentrionale in dipinti, disegni, incisioni e bronzetti di ottima fattura e grande fantasia”. Sottolineiamo tale tema della complessità interpretativa del mondo e del reale, pre-Riforma e pre-Controriforma, anche in contraddizione con quel che si sarebbe esplicato in tempi posteriori.

Le opere provengono da importantissimi musei e collezioni, fra cui   il Groeningemuseum di Bruges, il Museo del Prado, il Museo Lázaro Galdiano, il Monastero dell’Escorial (con ogni evidenza riguardo alla conservazione di Bosch la Spagna è un luogo privilegiato), le Gallerie dell’Accademia di Venezia, il Castello di Skokloster (Svezia), gli Uffizi di Firenze, il Rijksmuseum di Amsterdam la Galleria Borghese e la Galleria Doria Pamphilj di Roma. Un elenco lunghissimo per una virtuosissima sinergia.

Chiude l’esposizione un’opera audiovisiva di Karmachina, Tríptiko. A vision inspired by Hieronymus Bosch, con musiche di Fernweh: un viaggio, felicemente “lisergico” e malioso,  un succedersi di momenti figurativi e di altri più astratti, nel  mondo onirico dell’artista fiammingo.

Da segnalare che per l’occasione  24 ORE Cultura ha pubblicato tre libri dedicati a Bosch: il catalogo della mostra, un volume d’arte curato dai Professori Bernard Aikema e Fernando Checa Cremades e, infine, un graphic novel del brillantissimo illustratore Hurricane.

Un percorso quindi, quello di  Bosch e un altro Rinascimento,estremamente articolato, un viaggio in dimensioni e regioni ignote della fede, della ragione, dell’inconscio, che ti cattura implacabilmente restituendoti – con il suo bagaglio di bizzarro mistero, di bestiari di ibridi, di architetture, combinazioni e stravaganti enigmi, di apocalissi presenti e annunciate  – quando si è tornati nel mondo di fuori un carico di bellezza e una folla di domande, un plurimo semantico, ciò che consente di elaborare risposte non semplicistiche in cui lo stesso dubbio diviene fecondo stimolo.

Alberto Figliolia

Bosch e un altro Rinascimento, a cura di Bernard Aikema, Fernando Checa Cremades e Claudio Salsi. Mostra promossa dal
Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale e Castello Sforzesco e realizzata da 24 ORE Cultura- Gruppo 24 ORE. Fino al 12 marzo 2023. Palazzo Reale di Milano, Piazza Duomo 12.

Info e prenotazioni: siti Internet palazzorealemilano.it e www.mostrabosch.it, ticket24ore.it  tel. +39 02 54912.

Orari: mar, mer, ven, sab e dom 10.19,30; gio 10-22,30.

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Teatro Gerolamo, la piccola Scala

Un gioiellino architettonico dall’aria elegantissima e, nel contempo, familiare, intima. È uno dei più antichi teatri milanesi. Costruito nel 1868, il Teatro Gerolamo (Piazza Beccaria 8, in pieno centro milanese), era una sorta di piccola Scala, con i suoi due ordini di palchi e il loggione, per un pubblico di circa 600 unità. Una storia, la sua, ricca e anche travagliata. Teatro dialettale e marionette vi trovarono ampio spazio. In particolare queste ultime divennero padrone della scena grazie alla storica compagnia Carlo Colla & Figli, lì  presenti dal 1911 fino al 1957. Poi una chiusura, la riapertura nel 1958 con niente di meno che Eduardo De Filippo, e spettacoli di vario genere e, sempre, di altissima qualità: fra gli altri Franca Valeri, Tino Buazzelli, Jean-Louis Barrault, Paolo Poli, Milly, Enzo Jannacci, Dario Fo e Franca Rame, Ornella Vanoni, Domenico Modugno. Poi la gestione a cura di Umberto Simonetta, una nuova chiusura nel 1983 e la riapertura definitiva, che ha restituito questa meraviglia al pubblico milanese “Nel 2017 il teatro viene recuperato e messo a disposizione della città di Milano per iniziativa privata della Società Sanitaria Ceschina, proprietaria da circa un secolo dello stabile che ospita il Gerolamo. La Società ha provveduto ai lavori di restauro, proseguiti per sei anni e improntati all’idea di conservare e consolidare quanto era possibile recuperare della struttura originaria e del suo splendore. Il Gerolamo oggi conta 209 posti complessivi e numerosi nuovi spazi: una sala caffetteria, uno spazio per conferenze, mostre e proiezioni al piano terra, una piccola sala con un pianoforte e biblioteca”.

Sotto l’attuale direzione artistica del giornalista e scrittore Piero Colaprico il Teatro Gerolamo presenta una importante stagione, in cui si susseguono appuntamenti di grandissimo spessore: prosa e danza, concerti e mostre, persino, di recente, un fantastico spettacolo circense, vale a dire il Circoteatro ambrosiano-Il circo prima del circo. Lo spazio del teatro è stato riempito da una manifestazione che con artisti di livello internazionale ha riprodotto quello che poteva essere un circo ottocentesco.

Oltre a ciò mostre, lezioni (fra cui quella magistralis di Alessandro Serena, docente di Storia del circo), animazioni e convegni. “Un festoso ritorno alle origini. Perché il Circo prima del Circo abitava a Teatro. Ideato dallo scrittore e giornalista Roberto Bianchin (Premio Massimo Alberini per la critica circense) e messo in scena dal figlio d’arte Paride Orfei, figlio di Nando e nipote di Liana e Rinaldo, discendente dalla celebre dinastia del circo italiano e direttore della scuola di arti circensi Circo dei Sogni, lo spettacolo Circoteatroambrosiano-Il circo prima del circo, creato appositamente per il Teatro Gerolamo, ricrea l’atmosfera dei circhi-teatro ottocenteschi, con la presenza di un cast internazionale”.

E gli artisti esibitisi hanno difatti regalato uno spettacolo indimenticabile: il mimo e clown Paolo Casanova, in arte Carillon (stralunato, raffinato, lunare e poetico), dal circo Roncalli, Germania; l’acrobata aerea Snejinka Nedeva, dalla Bulgaria; il comico Benjamin Delmas (Francia), dal Cabaret Bizarre di Zurigo (un autentico fenomeno di bravura e simpatia); l’antipodista Romy Meggiolaro; il giocoliere Sonny Caveagna; la verticalista Britney Bricherasio; gli acrobati Christian Orfei, Matilde Pasotti, Simone D’Agostino; le contorsioniste Angelica Caforio e Matilde Grossi; la trapezista Federica Solinas; i musicisti Roberto Riccitelli e Nicole Davis. Tutti bravissimi, tutti eccelsi nella loro arte. Un’autentica gioia per gli occhi e per il cuore.

Originale e in grado di soddisfare numerose curiosità anche la mostra storica Nando Orfei, un sogno di famiglia, curata dalla famiglia Orfei, che ha posto in esposizione materiali provenienti dai propri copiosi archivi (costumi di scena, oggetti e attrezzi, foto e manifesti), per raccontare il secolo di vita di questa grande e celebre dinastia del circo italiano, che ha fatto divertire innumerevoli generazioni di bambini (e genitori).

Si segnala anche il libro di Paride Orfei: Il sogno degli Orfei. “Una sorta di autobiografia, non solo sua, ma di tutta la famiglia, che ha segnato la storia del circo italiano, con un ricco apparato di fotografie rare e documenti inediti. Figlio del domatore (ma anche musicista, giocoliere, clown e attore cinematografico) Nando Orfei, e dell’acrobata aerea, equilibrista e cavallerizza (ma fu anche domatrice di tigri) Anita Gambarutti.

Per chi volesse seguire il Teatro Gerolamo e, oltre che gustare spettacoli di qualità. sorprendersi della sua bellezza le info di contatto sono le seguenti: telefono +39 0236590120/122 (biglietteria, 0245388221), e-mail info@teatrogerolamo.it e biglietteria@teatrogerolamo.it, sito Internet| www.teatrogerolamo.it.

Al Teatro Gerolamo sembra di essere a casa propria e, insieme, di compiere un viaggio nel tempo.

Alberto Figliolia

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Stregherie-Fatti, scandali e verità sulle sovversive della storia

Quante donne persero la vita, arse vive sul rogo, per un ostinato e malvagio pregiudizio e per l’irragionevole superstizione di popolo e autorità? E prima ancora erano state sottoposte ad atroci torture per farle confessare peccati e colpe d’ogni sorta. L’accusa era quella di esser streghe, di commerciare con il diavolo e di ordire malefici.

Una pagina nera nella storia dell’umanità. Un’oscura storia che si trasmise attraverso i secoli costando ragione ed esistenza a decine di migliaia di donne.

Eppure questo capitolo tenebroso accese la fantasia di innumerevoli artisti, da cui si generarono opere che rappresentavano un documento estetico, non solo dichiarazione di distanza o atti d’accusa, stigma del potere ottuso e mille altre implicazioni lasciate a noi posteri.

La mostra Stregherie-Fatti, scandali e verità sulle sovversive della storia alla Villa Reale di Monza si dispiega imponente spalancando vista e intelletto su quelle antiche vicende e vicissitudini. Come detto, l’esposizione è ricca e illuminante, giovandosi di pezzi pregiatissimi, dalle stampe, fra cui Albrecht Dürer, con un bulino che raffigura una strega a rovescio sul caprone, Hans Baldung Grien, con La strega e il palafreniere (1544/45), Joseph Apoux, con le acqueforti sulle streghe di Notre-Dame (1888), e Goya (impressionante la sua serie dai Capricci) – ma anche gli anonimi raggiungono esiti straordinari – a trattati cinquecenteschi, feticci, amuleti, strumenti rituali, sino ai manifesti cinematografici.

La danza macabra e oscena del sabba, una congerie di scene le più varie, streghe volanti, l’esperienza immersiva in una sala buia ove si possono udire le parole da un antico processo, Anno Domini 1539, a una presunta strega nel modenese: selvaggiamente torturata, la sventurata rinnegò e abiurò quel che non aveva fatto e si salvò la vita, seppur marchiata dall’ignominia.

Tuttavia la mostra è… “crudi episodi di stregoneria ma anche scene luminose di streghe buone, zingare che guariscono bambini dalle malattie e simboli magici nascosti in quadri pastorali” o il mondo “dell’Antica Religione della Grande Madre […] dalla tradizione mitologica fino alla definizione della figura in epoca moderna”.

Sono un centinaio le incisioni originali scelte dal curatore Luca Scarlini dalla Collezione Guglielmo Invernizzi, da cui provengono anche volumi quali il Malleus Maleficiarum, un manuale sulla caccia alle streghe (edizione del XVI secolo), nel quale “sono indicati caso per caso i supplizi e le pene da fare soffrire a chi era accusato di stregoneria”. I manifesti, le locandine e le fotobuste con il tema del maligno arrivano invece dalla collezione di cimeli cinematografici di Alessandro Orsucci, a cui si aggiunge “una serie di oggetti originali, mai visti in Italia, legati al mondo della stregoneria – antichi calderoni, bacchette, feticci, amuleti e talismani – prestati dal leggendario Museo specializzato in Stregoneria di Boscastle, in Cornovaglia. Inoltre, una sezione di interesse locale, è dedicata al raro romanzo storico La strega di Monza, scritto da Giuseppe Bertoldi da Vicenza nel 1861, proveniente dalla Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza, che racconta le vicende della Matta Tapina, Strega herbaria, che visse nel “Bosco Bello”, selva poi inglobata nel Parco di Monza”.

Una sezione separata, poi, ospita sei illustrazioni originali e inedite di Gloria Pizzilli, illustratrice di fama mondiale che collabora con prestigiose testate quali The New Yorker, The New York Times, Scientific American, The Boston Globe, GQ Usa, La Stampa, L’Espresso e Il Corriere della Sera. “Con uno stile tra il burlesque francese e le donne di Klimt le streghe di Gloria Pizzilli sono terrificanti, nude e bellissime, con curve che sembrano abbracci, ma con una atrocità talmente palpabile e aggressiva da aver richiesto una sezione chiusa per non urtare la sensibilità dei visitatori meno preparati”.

Il percorso espositivo è suddiviso in dieci stanze a tema, con un accompagnamento sonoro (“voci, sussurri e grida strazianti”) teso ad accrescere la suggestione delle immagini, a suggerire, quindi, un’evocazione multisensoriale . “La mostra è accompagnata da un volume di Luca Scarlini, edito da Skira, concepito come un racconto sulla strega, scandito come l’esposizione in dieci capitoli, che ne affrontano tutti gli aspetti di maghe, veggenti, profetesse, pizie, accogliendo anche immagini della mitologia classica, rimanendo sempre decisamente nel mondo femminile”.

Una mostra da brivido!

Alberto Figliolia

Stregherie-Fatti, scandali e verità sulle sovversive della storia,a cura di Luca Scarlini. Mostra ideata e prodotta da Vertigo Syndrome, con il patrocinio del Comune di Monza. Belvedere della Villa Reale, viale Brianza 1, Monza. Fino al 26 febbraio 2023.

Info: sito Internet http://www.stregherie.it.

Orari: gio e ven 10,30-18,30; sab e dom 10,30-20,00.

Catalogo mostra: Skira (skira.net).

Perché serviva una mostra sulle streghe-Cosa è Vero?

“Con il marchio infame di “Strega” nei secoli, spesso si bollava una donna semplicemente più desiderabile delle altre, più libera, guerriera, colta e riservata, portando a persecuzioni ed esecuzioni violente di donne innocenti, roghi, impiccagioni, decapitazioni che servivano ad instaurare nel popolo una paura reverenziale della giustizia divina contro il paganesimo, il satanismo, il sesso ed eresie di vario genere. Ma essere creduta una strega non è sempre stato un nome scomodo da portare cucito addosso. Infatti essere credute capaci di scatenare un potere arcano, sconosciuto, inspiegabile e terribile è stato talvolta un’efficace e modernissima strategia di branding per sopravvivere, essere temute e rispettate a uso e consumo di donne che altrimenti sarebbero state sopraffatte e sottomesse dal patriarcato dilagante del mondo antico. Le streghe sono davvero state sempre tra noi? I racconti di donne sapienti e sagge, dalle infinite conoscenze della natura e con poteri capaci di aprire finestre sul futuro, affondano le radici nel nostro passato più lontano, eppure abbiamo sempre cercato di rimuovere queste figure dal pensiero razionale, e considerarle un frutto dell’immaginazione, imbarazzante e da nascondere. Le streghe non sono state perseguitate nel più cruento dei modi soltanto nei periodi più bui della nostra storia, infatti ancora oggi, in molti paesi del mondo, l’accusa di stregoneria è tristemente viva e miete ancora le sue vittime”.

Stregherie spiegata dal suo curatore Luca Scarlini

“La donna nasce fata, in amore è maga, ma per le società e per le religioni è strega. Il racconto creato dalla mostra permette ai veri appassionati di temi di femminismo, di letteratura gotica, di metalrock, di film dell’orrore, di antropologia, come di folklore, o di realizzazione di domestici incantesimi, di avvicinare il percorso come macchina narrativa, seguendo le stanze che sono dedicate ai momenti più rilevanti della vicenda della strega e di sentire storie originali ispirate alle opere presentate nell’esposizione. Al di là delle infinite manipolazioni storiche, il termine strega in sostanza segnala una identità profondamente legata al mondo della natura, una donna spesso esperta di erbe e maestra dell’interpretazione dei segni, che il folklore delle Alpi Retiche definiva perfettamente con il termine “Signora del gioco”, titolo di un celebre saggio di Luisa Muraro del 1976 dedicato a ricostruire episodi della caccia alle streghe”.

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Negli archivi del cuore…

Negli archivi del cuore…

Negli archivi del cuore conservo

un cane di nome Jem e un altro di nome Athos,

giocattolini di latta, albi a fumetti (a strisce

o pagine alternate a colore e in bianco e nero)

letti nella penombra fra la polvere danzante,

un’invasione di cavallette, la raccolta delle mandorle,

la caponata di melanzane al mattino con mia zia,

fiabe illustrate, un giradischi a 16, 33, 45 e 78 giri,

i soldatini di plastica, le biglie colorate,

i gasometri della Bovisa, i binari del tram,

le luci in Piazza Duomo, i bigliettini Perugina,

le figurine e la colla per attaccarle,

i Mondiali di Messico e nuvole, lo scudetto del 1971,

L’armata Brancaleone, la prima macchina per scrivere (una Everest),

la Citroën Squalo, la Giardinetta, la Dyane 2CV, la 600 familiare,

lo sbarco sulla Luna (che non ho veduto), i giochi all’oratorio,

le palline di semi di pioppo, le nebbie d’autunno,

i bagni nelle rogge, i tramonti di Sirmione,

gli ideali negli anni di piombo (erano davvero così tetri?),

l’aroma della sera al limitare dei boschi di San Giacomo Filippo

e il freddo scorrere del Liro fra i massi levigati,

Frankenstein o il moderno Prometeo di Mary Shelley,

nata Wollstonecraft Godwin,

il mare di Follonica, le partite di basket

sulla terra battuta, la nascita dei figli,

bisticci e disperazioni

ma anche l’amore.

Alberto Figliolia (da La semina dei ricordi, 2013, Albalibri editore)

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Renzo Barivera alias Barabba

Barabba (Bar-abbâ) come il ribelle degli zeloti per volere della folla liberato al posto di Gesù.

Barabba, come la romantica figura interpretata, anzi disegnata in un celeberrimo omonimo film, Anno Domini 1961, per la regia di Richard Fleischer (tratto dall’omonimo romanzo del Premio Nobel per la Letteratura 1951, lo svedese Pär Fabian Lagerkvist), da quel mostro di bravura di Anthony Quinn.

Barabba, come Renzo Bariviera, il primo giustiziere di una formazione Stars and Stripes.

Fu il leggendario Cesare Rubini, hall of famer sia nella pallanuoto (oro olimpico a Londra 1948) sia nella pallacanestro, ad appioppargli il soprannome che da allora avrebbe distinto il simpatico e intelligente guascone della nostra pallacanestro (il loro fu un rapporto di stima e burrascoso). Atleta di eccelsa caratura, un uno contro uno, a dir poco, fulmineo e fulminante, davvero micidiale forza e sapienza, Renzo fu colui che pescò il 21 maggio 1970 nella splendida – asburgico-mitteleuropea e, insieme, titoina – Lubiana, una magnifica perla dal mare dei suoi vent’anni.

Si era alla sesta edizione dei Mondiali… Il famoso gancio contro gli americani… Al momento non mi resi conto della storicità dell’evento. Avevo segnato il canestro decisivo contro i maestri del gioco. Con l’incoscienza della mia giovane età, il pallone in mano e nessun compagno smarcato, eseguii il mio gancio. Che andò dentro. Quel tiro mi diede un marchio indelebile, in positivo. Un tiro in gancio, questo tipo di tiro, sostanzialmente immarcabile – Jabbar docet – quasi scomparso dai campi di gioco. Insieme con il nostro a calcare il parquet – 6 i suoi punti – c’erano quel giorno Flaborea (2 punti), De Rossi, Recalcati (8), Bisson, Masini (14), Zanatta (8), Meneghin (8), Giomo, Errico, Cosmelli (10), Rusconi. Una gran bela compagnia. Quell’Italia fallì il podio iridato per un soffio, preceduta da Jugoslavia, Brasile e URSS. Dietro si mise, però, USA, Cecoslovacchia, Uruguay, Cuba, Panama, Canada, Corea del Sud, Australia, Egitto. Ma quel trionfo, 66-64, fu uno degli spartiacque del nostro cestismo.

Lunga è stata la carriera in azzurro di Bariviera, classe 1949, dal 2012 nella Italia Basket Hall of Fame: due bronzi europei, 208 presenze per un totale di 2151 punti e una media-partita di 10,3 punti, con un top di 29; esordio, bagnato di 6 punti, il 4 settembre 1969 in un’Italia-Austria 76-38 (con lui, in quella circostanza, Ossola, Recalcati, Bovone, Masini, Bergonzoni, Zanatta, Bisson, Cosmelli, Jessi, Giomo, Meneghel) – così come longeva si è rivelata la sua carriera nel massimo campionato, le cui scene avrebbe abbandonato soltanto alla soglia dei fatidici “anta”.

Una storia, quella di Renzo, che aveva avuto un fratello professionista nel ciclismo, Vendramino, iniziata nelle file del Petrarca Padova, dove aveva evoluito tale Doug Moe, sublime attaccante e futuro mirabilissimo allenatore NBA. Un viaggio nel sublime infinito del parquet, che l’avrebbe poi condotto ovunque e altrove, sebbene la sua terra d’elezione sia stata la Lombardia, in primis Milano e Cantù… A Padova esisteva una vera cultura del basket, praticato soprattutto da universitari. Ricordo che ben otto dei compagni con cui giocavo erano laureati. Una sorta di sport d’élite. Io, tuttavia, ebbi subito l’opportunità di venire a Milano, con le scarpette rosse dell’Olimpia, la squadra più famosa d’Italia. Anche a Cantù ho vissuto un bel periodo, vi ho vinto molto. Non dimentichiamo, difatti, la doppietta brianzola in Coppa dei Campioni, la seconda delle quali in quel di Grenoble contro la sua ex squadra, la Pallacanestro Olimpia Milano, che poi sarebbe tornata ancora la sua in uno strano e particolare gioco a elastico delle casacche. La partita nella città di Marie-Henri Beyle detto Stendhal, innamorato di Milano, fu decisa in favore di Cantù e a detrimento di Milano da un tiro scagliato sul ferro, allo spirare del tempo e sull’eco della fatale sirena, da Franco Boselli, Boselfranco, il gemello che tirava con la mano destra, un esterno, di caldo cuore e mano fredda, che per il solito quei tiri li metteva implacabilmente dentro. Gli dei della palla a spicchi avevano evidentemente optato per Cantù.

Ma rifulgono più vivide le memorie legate alla maglia azzurra o quelle legate alla vita di club (oltre a Milano e Cantù, nel destino di Barabba ci furono Forlì e il Gira Bologna targato Fernet Tonic)? Con la canottiera della Nazionale ti fai carico delle aspettative di un Paese intero e te ne accorgi in particolar modo quando vai all’estero ed entri in contatto con le comunità italiane lontane dalla patria. Certo nella società in cui militi vivi la quotidianità della pallacanestro e ti si forma il carattere. Nel palmarès barivieriano, oltre a due edizioni della massima competizione continentale, vi sono quattro scudetti (1972, 1981, 1985, 1986), una Coppa Italia (1986), una Coppa Korac (1985), due Coppe delle Coppe (1971, 1972), una Coppa Intercontinentale (1982). Scusate se è poco.

Ma il suo micidiale uno contro uno avrebbe avuto successo anche adesso. Ancora negli occhi abbiamo le immagini della travolgente furia agonistica di Barabba in terra scozzese, a Edimburgo, nel 1976, per le qualificazioni olimpiche, contro i plavi di Krešimir Ćosić, Dražen Dalipagić e Mirza Delibašić, una squadra di fenomeni cestistici Talvolta ci penso e ritengo che avrei potuto ben giocare anche adesso, perché con il tiro da 3 le difese, pur aggressivissime, si sono molto più allargate, dilatando, con ciò, gli spazi per l’uno contro uno, che era il mio pezzo forte.

Un unico rimpianto… Forse avrei potuto tentare la strada degli Stati Uniti – s’è accontentato di batterli… –. Che ho incrociato anche, in un torneo a Messina, nei panni di un biondino, giovanissimo: un certo Larry Bird… che ho anche marcato. Era già fortissimo.

Sembra ieri.

Grazie, Barabba, per quel gancio cielo tricolore e per le emozioni che ci hai donato.

Alberto Figliolia

(Articolo parzialmente rifatto, originariamente pubblicato su dailybasket.it, rubrica Cestovagando)

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