Il vento nelle gambe, Fanny, anche nello Hongerwinter
quando i selciati ribattevano il suono
sinistro degli stivali al passo dell’oca
e le speranze s’inchiodavano alle croci uncinate,
fra l’inascoltato urlo di Árpád,
fra le invisibili parole di Anna.
Il vento nelle gambe, Fanny,
anche quando ti dileggiavano per la maternità,
ma tu correvi sulle sue ali,
con le sue ali,
piuma e ferro-ferro e piuma,
più veloce, più in alto, più forte,
un metro dopo l’altro,
un ostacolo dopo l’altro,
i capelli come un’onda a fendere
il mare delle perplessità,
le braccia a mulinare oltre il muro
del dubbio, le gambe a ruotare
contro il morso della nostalgia.
100 metri piani, 200 metri piani,
80 metri ostacoli, la staffetta…
ogni gara una scommessa contro il tempo
che ci mangia senza che lo sappiamo,
una sfida per le occasioni perdute per sempre.
Londra ‘48 ancora vibrava nel ricordo
sotto l’ombra rabbiosa delle bombe,
al sibilo cieco delle V2, e le macerie
popolavano il cuore di orfane madri
e innumeri padri giacevano in sconosciuti avelli
per ogni luogo del globo.
Ma tu volavi, Fanny, più forte, più in alto, più veloce
del dolore,
più forte, più in alto, più veloce
della follia
bastarda del genere umano.
Fanny, creatura del mito, radice e foglia,
mamma volante, aerea e possente,
il sorriso della Gioconda
dipinto sul viso, lo sguardo infinito
come le terre basse del tuo Paese
strappate al sale, all’ignoto
che avanza e senza posa minaccia.
Fanny, fiore di palude che sboccia
umido e maestoso, luce… luce
contro il fango dei giorni.
Il vento nelle gambe, Fanny…
Alberto Figliolia