Quando ero piccolo-piccolo
volevo fare il facchino:
alla Stazione Centrale,
sotto il vetro e il ferro,
fra il fumo elettrico dei treni
in arrivo e in partenza,
ero affascinato da quegli uomini
in blu (tuareg della metropoli)
con il cappellino a visiera
che prestavano soccorso
alla variopinta folla delle valigie.
Poi giunse il momento
in cui avrei desiderato fare il cowboy
(Ombre rosse, Tex Willer, Capitan Miki, Pecos Bill…)
[Ancora non sapevo di Wounded Knee e di Sand Creek]
e, a seguire, l’astronauta,
anche se qualche rimosso evento mi avrebbe impedito
di assistere allo sbarco sulla Luna
(ne ho sempre dato la “colpa” a mia sorella
che doveva nascere in quel mentre,
sebbene sia nata ben due anni dopo).
Poi ho pensato che avrei voluto fare il romanziere
di guerra, cominciando con una storia ambientata
nella giungla birmana, ma nello stesso tempo
speravo che avrei potuto fare il calciatore dell’Inter:
a un provino, zona Lorenteggio, appena entrato
in campo, stoppai subito la palla
maldestramente rinviata dal portiere,
ma ero davvero un insicuro imbranato brocco…
persi la sfera e precocemente finì
la mia carriera di pedatore
(mi consolai con il tifo e con L’Intrepido).
Venne infine la volta dell’idea d’intraprendere
lo studio della Medicina, ma il folle amore
per il basket soppiantò anche questo:
allenatore di basket, questo sarei stato.
Allenatore di basket e giornalista.
Allenatore di basket e giornalista…
Mi son ritrovato a esser poeta.
Alberto Figliolia